Recensione di Elisabetta Motta Testo critico (PDF)
Il cielo di qua (La Vita Felice, 2018) è una raccolta poetica frutto di un lungo percorso, in cui confluisce l’esperienza che Corrado Bagnoli ha maturato in questi anni in vari ambiti: poetico, artistico, musicale, familiare, scolastico. Dal punto di vista stilistico essa vive in una continua tensione tra l’altezza della lirica, secondo la lezione luziana («Vola alta, parola») e la necessità del raccontare tendendo alla scrittura poematica tecnica narrativa con cui ha raggiunto alti esiti nelle due precedenti raccolte: Fuori i secondi (Vita Felice 2005) e Casa di vetro (Vita Felice 2012).
Il titolo della raccolta è preso a prestito da un quadro di Pierantonio Verga e ciò se da un lato sottolinea la continuità proprio con Casa di Vetro, che era dedicata interamente alla vita e all’opera di questo artista, dall’altra suggerisce un’idea di poesia che è in grado di divenire visione solo perché è fedele alla vita e alla terra, poesia che è la manifestazione della dimensione della trascendenza nell’immanenza: l’aldilà nell’aldiquà. Essa è pervasa da una forma di umiltà (da humus) in senso cristiano che radica ogni cosa, anche la più spirituale, alla terra. Ogni cosa umile risplende, il titolo di una sezione dell’ opera, potrebbe infatti ben rappresentare il corpus dell’intera raccolta. Come scrive Sebastiano Aglieco nella prefazione, la poesia di Bagnoli è abitata da una forma di francescanesimo capace di accogliere tutte le cose, anche il dolore e la sofferenza, come strumenti di espiazione che portano alla gloria.
L’opera è suddivisa in tre sezioni ed è preceduta da un preludio che è una sorta di poesia-manifesto in cui convergono immagini, simboli e parole chiave della sua poetica: casa, ascoltare, custodia, cura, accogliere, sguardo, dono, grazia, cielo.
L’immagine della “casa di vetro” ritorna qui impreziosita dal blu e dall’oro: luogo di accoglienza ben rappresenta la parola poetica che si deve prendere cura del mondo. Essa costituisce un dono in primis per il poeta stesso, che poi lo restituisce al mondo come offerta. Poesia che nasce dall’ascolto, dallo sguardo che si fa voce e si incarna in un gesto, una parola di pura grazia.
La prima sezione del primo movimento intitolata anch’essa Il cielo di qua raccoglie dieci testi nati ognuno dalla visione di una immagine del volume di Lucia Simion, Antartide. Il cuore bianco della terra (Giunti). Poesie che come ci spiega lo stesso Bagnoli nella post fazione «esplorano il rapporto fra il corpo del paesaggio, l’esperienza quotidiana del lavoro educativo nella scuola e la materialità della scrittura.»
Paesaggi in cui dominano il colore bianco e il ghiaccio che, con le sue fratture e fenditure, coi suoi movimenti sull’acqua rende tutto instabile e mutevole, soggetto a crolli ma anche aperto a nuove possibilità. Proprio questo scenario suscita e favorisce il processo conoscitivo che avviene dentro la scrittura di Bagnoli, un processo che tutto coinvolge e che trova nell’acqua, nella sua forza, nella sua intrattenibilità una specie di consonanza particolare (come era già stato fatto notare da Gianfranco Lauretano in relazione a La scatola dei chiodi, La Vita Felice,2007).
Il poeta muovendosi in questa “terra desolata” va alla ricerca di parole nuove, primigenie, che diano un orientamento se non un senso a queste faglie che sono in realtà dei cedimenti esistenziali, legati ai numerosi addii e alle partenze di cui è costellato questo libro. A lui spetta il compito di custodire, raccogliendo nomi e volti che diversamente scomparirebbero nell’oblio, di operare una sorta di resistenza contro il gelo dell’inverno e di raccontare poi di nuovi scenari e nuovi incontri che la vita ci riserverà. Così recita il testo di apertura: «Ci si apre soltanto una scia/dentro la deriva del bianco,/ dentro il disfarsi fluttuante,/ il rumore secco della frattura, degli scontri, dei baci, dell’urto./ Si richiude dietro di noi,/ tutt’intorno, si stende ancora/ davanti questo foglio spezzato, parole, voci che si disperdono,/ tremano, pungono e chissà/ se invece potrebbero dircelo/ il cielo, intero». Nell’ultima sezione Siamo sempre dentro un vento, che comprende testi scritti durante il pellegrinaggio a Medugorje, fa la comparsa un altro elemento naturale, il vento, che si sostituisce al ghiaccio e all’acqua. Associato da sempre al manifestarsi della divinità e all’esperienza poetica intesa come dar voce a un “fiato” che “spira”, diviene in questo contesto anche veicolo di comunione e di cura: «il respiro fa un giro largo,/ è quasi un filo che ci lega e lo sentiamo:/ riaggiusta ognuno in fondo, la vita/ dove si era rotta chissà come, perché/ da quando.»
Il secondo movimento Adesso andare è un verbo comprende poesie legate al cerchio familiare. Come spiega Bagnoli nella postfazione, il primo poemetto è interamente dedicato a Elena al suo matrimonio e al suo trasferimento all’estero, La certezza che ci sia, chissà dove e Dentro questo viaggio sono dedicati alla figlia Adriana in occasione del suo matrimonio mentre Vicolo Tebaldi 9 e Ogni cosa umile risplende sono invece dedicati al figlio Tommaso e alla grazia e alla forza della sua adolescenza. La poesia ci interroga sul senso di questi cambiamenti, su come ricostruire la casa con nuovi equilibri e con le persone che sono rimaste, su come ripartire sempre. Colpisce in questi testi lo sguardo del poeta, per il quale guardare ai figli è guardare al mondo più prossimo con tutte le sue sfide e le sue grazie. I figli sono «forma e sostanza concreta del mistero» che come noi devono compiere il loro viaggio e pertanto, nonostante la difficoltà dell’accettare i cambiamenti, del riconoscere in quella faccia da grande, «questo amore che era mio/ da piccolo»bisogna sostenerli e lasciare che percorrano il proprio percorso, con la consapevolezza che noi andiamo e ritorniamo negli altri e che per ognuno di noi, anche se al momento non lo capiamo, c’è un disegno provvidenziale:«questo crescere/ e andare, questo rincorrere sempre/ questo arrivare dopo a vedere/ il bene».
Interessante la sperimentazione che Bagnoli compie con il terzo movimento, Questa corsa di parole, costituito dall’omonimo poemetto nato dall’ascolto della performance per solo piano di Keith Jarrett, The Köln concert. Esso è costruito come una variazione attorno ad un tema musicale con cui il poemetto si apre e si chiude: «Ho solo questa corsa di parole/ nelle gambe». In esso il poeta rilancia parole che abbiamo ritrovate già disseminate in tutta la raccolta: casa, buono, parole, chiodi… che si rincalzano come in una fuga jazzistica, mutando , fino quasi a non farsi riconoscere più, alla rincorsa del tema che sembra sempre sfuggire e che diventa inafferrabile, come inafferrabile è la vita, sempre varia e mutevole.E allora non resta che buttarsi entro il grande movimento della vita e dell’amore: «Andare,adesso, / dietro quella crosta dura,/ farsi male fino a sentire/qualcuno che risponda,/ che li chiami come si chiama/ un figlio, attesa e fame, occhi,/ corsa di parole nelle gambe.»
Elisabetta Motta