Recensione: Ci vuole un fiore di Marco Sonzogni, Società editrice fiorentina, Firenze, 2014.
nelle galassie
d’ortensie fiorite:
considero cieli,
disegno orbite,
seguo miracoli.
Altro non conta».
Bastano questi pochi versi per dare ragione di come il “giardino fiorito” di Marco Sonzogni, costituito dalla sua recente raccolta Ci vuole un fiore(Società editrice fiorentina, 2014), non costituisca un hortus conclusus, ma un ponte naturale tra cielo e terra, a cui il poeta ha affidato la propria personale visione. Essa si innesta su quella di tanti poeti illustri che hanno legato il loro nome a fiori e che hanno costituito − come ha scritto Gabriella Sica nella prefazione − terreno fertile in cui la parola-seme di Sonzogni ha trovato alimento: dal gelsomino-Pascoli all’azalea-Plath, dalla ginestra-Leopardi all’ortica-Spaziani, dalla rosa-Caproni al girasole-Montale, dal biancospino-Heaney al giglio-Dickinson. La silloge è costituita da 48 poesie, ognuna dedicata ad un fiore diverso, fatta eccezione per l’ultima.
Sonzogni nella nota introduttiva ha scritto, riprendendo H.W. Beecher, che«i fiori hanno un’ influenza misteriosa e sottile sui sentimenti: come certe melodie musicali rilassano la tensione della mente, dissolvono in un attimo la sua rigidità » e il suo florilegio ne è testimonianza. Ma i fiori sono molto di più, come ha scritto Pam Brown sono «le speranze esaudite della terra», sono un dono, segno tangibile di una alterità gratuita che si offre a noi spontaneamente e ci illumina la vita attraverso il profumo e il colore. Ad essi affidiamo i nostri sogni, i desideri, perfino i nostri cari scomparsi. Talvolta ne utilizziamo il “linguaggio segreto” per inviare i nostri messaggi, quando le parole vengono meno, e da essi attendiamo arcani responsi, come allude l’evidente paronomasia florilegio-sortilegio in chiusa della raccolta. E davvero i fiori hanno molto a che vedere con il mistero.
Sonzogni, che appartiene a quella schiera di poeti che non credono che la realtà sia solo ciò che si vede, sa che anche un fiore può farsi veicolo d’altro, perché la linfa che lo alimenta è continua tensione e luce di domande mai placate. Così l’incontro con il fiore si fa stupore e bellezza, letizia, segno necessario che introduce a quel movimento del mondo in cui tutto misteriosamente si raduna e si squaderna. E se l’attaccamento alla terra porta talvolta il poeta a cercare «speranze più basse, più sicure: / proprio come fanno a calice i mughetti», inchinandosi al sottobosco, appiattendosi nell’erba «fino a credere mani / rastrelli», il suo sguardo disegna nuove orbite e ricerca continuamente movimenti astrali «comete / nelle galassie / d’ortensie fiorite». Questa continua circolazione di flussi energetici vitali, floreali e stellari è ciò che lo salva dalla tentazione di arrendersi all’ombra, al peso di pensieri ingombranti, alla calunnia che attanaglia la mente. La sua poesia non si sottrae ai pesi dolorosi della vita, simboleggiati dai fiori spinati, dall’ edera-fiele, dalla calla-amor tradito, dalle violette-angosciose preghiere, ma sa trovare in essi una linfa vitale propulsiva che la fa tendere come i fiori verso l’alto, verso la luce, alla ricerca di segni di una verità irrinunciabile. E i segni sono molti: talvolta appaiono confusi o indecifrabili, talvolta discontinui, come l’intermittente lanterna del biancospino-Heaney. Ma quando «il segno c’è, chiaro» non resta che seguirlo «con la propria orbita », «crederci», affidandosi al girasole-Montale, simbolo di una speranza non solo umana o ai crisantemi che scompaginando ogni umano calcolo si pongono con l’evidenza del miracolo.
non tutto si concluderà.
Crisantemi marcescenti,
pronti a chiudere i conti,
confonderanno i calcoli: dal giardino dei miracoli
una nuova linfa salirà
a passo di recise rime».
Rime che nell’ultimo compimento della raccolta sono simboleggiate dalle anguille-capelli che rinascono dalla terra e che attraversando gli oceani sfuggono al loro destino di morte sulla pagina per risalire fino alla sorgente delle parole e della vita. L’anguilla, misterioso animale che ha popolato il bestiario di Montale, Heaney, Orelli (per citare solo alcuni fra i poeti più cari a Sonzogni, che ne ha tradotto i versi), continua ancora oggi ad affascinarci in quanto simbolo di vita che lotta per affermare se stessa e della poesia che “resiste” e sa andare controcorrente. Sonzogni, che alterna l’attività di poeta a quella di traduttore, ne ha fatto anche il simbolo dello “sforzo” che entrambi devono compiere nello svolgere il loro duro lavoro.