Le parole che lasci di Marco Vitale, libro d’artista con due poesie inedite e un’acquaforte di Luciano Ragozzino. È stato composto e stampato a amano con caratteri Magister su carta Amatruda di Amalfi con i torchi dell’ex gelateria di via Guinizelli 14 per i tipi de Il ragazzo innocuo in 50 esemplari numerati e firmati

I testi di Marco Vitale contenuti in questa plaquette d’arte si svolgono nel segno di una continuità con la sua produzione poetica e in particolare con La strada di Morandi (edita nello stesso anno, il 2024, da Passigli) essendo pervasi da una sottile nostalgia che costituisce l’imprinting generativo della sua parola e che gli consente di rivisitare i luoghi e gli eventi della sua esistenza, rivivendoli nel «teatro del cuore», dando vita ad un «rosaio di domande» che alimentano un dialogo ininterrotto con i suoi interlocutori o, a volte, più semplicemente un monologo con se stesso. Nel testo ambientato a Chiaravalle, i versi si declinano nella prospettiva della vita che si smarrisce e declina, eppure questo clinamen non è l’unico versante del bosco: tra i rovi e le foglie riarse, le parole non dette o che vivono nel breve spazio di un messaggio possono essere semi di cose a venire, spiragli di chiarore, esili tracce per ritrovare il sentiero perduto se letti nella prospettiva di una cara luce dorata che, se pur fuggevole, può disegnare «un vago tratto di celeste». Con questa predisposizione d’animo è evidente allora che la domanda che il poeta rivolge ad un tu femminile: «che cosa è mai quell’abito cucito / al riparo del tempo per fatica e visione, per visione e fatica» non necessita più di una risposta. È evidente che il poeta ci sta offrendo una riflessione su quale sia il compito della poesia: irradiare la parola di una luce più forte, sulle tracce di quel nocciolo di verità che si dispiega nei nomi, nei volti, nei luoghi, e porsi sulle tracce del tempo perduto per contemplarlo come un tempo ritrovato:
A volte le parole che lasci
Immaginare sono come briciole
di una nota fiaba
promemoria in un bosco
a ritrovare il sentiero
Vivono nello spazio di u messaggio
e vorrei chiederti cosa
che cosa mai quell’abito cucito
al riparo de tempo per fatica
e visione, per visione e fatica
cosa ti spinge in questo giorno di benefica
pioggia ad indossarlo intanto che a un rosaio
di domande ti penso e la luce l
a cara luce di Milano disegna
qui un vago tratto di celeste
facendosi dorata e fuggevole
come i tuoi anni, a Chiaravalle
Anche il secondo testo è ambientato a Milano, durante una sosta al mezzodì al Planetario, in compagnia di un’amica. Il poeta si ritrae assorto, «seduto forse con un libro in mano o a un passo divagato» ma «non pago di un ipotetico esistere» e assorto piuttosto, complice il cielo stellato, in una pratica meditativa – in realtà un esercizio dell’anima – per cercare di cogliere in tutti gli eventi la loro luce prima e ultima. Egli mentre avverte il peso illusorio del nostro io, del nostro sentirsi fissati in una forma, invoca quel quid risolutivo per sé e per gli altri che possa liberare da questa angusta prospettiva e mettere finalmente nel mezzo di una verità illuminante, se pur dolorosa:
La volta che si spense e ne fluirono
le infinite le luminose avvinte
in alte spire remotissime stelle
la volta che ricordi insieme al tratto
gentile che contorna il Planetario
con i suoi tigli e le panchine
per una sosta a mezzodì con un’amica
del tuo tempo a Milano in un allora
in cui c’ero e non c’ero
seduto forse con un libro in mano
o a un passo divagato ma non pago
di un ipotetico esistere. Esistere
come lo immagino pensandoti alla luce
che tanto mi colpisce del tuo tema
meridiano e mi ferisce
mentre s’illumina la sala
esco dal Planetario