
Testo critico
«Viviamo in mezzo ai segni, sotto traccia, / spie dei rovesci dei cieli e dell’aria insondabile / legati a quanto in noi tesse il destino» scrive Massimo Morasso in Genesi VI (La Caccia spirituale, Jaca Book, Milano, 2012, p.22).
La sua poesia, che coniuga terrestre e celeste, opera un tentativo di svelare questi segni che danno corpo all’invisibile, al mistero. Egli, attraverso una procedura ermeneutica che parte dalla centralità della propria individualità, giunge alle successive fasi di descrizione-interpretazione-comprensione del gran testo del mondo. Con il suo sguardo «distaccato» e «pietoso» opera una messa a fuoco dentro al reale, fino a giungere alla visione. Nobilitando rilkianamente le cose, accordando il loro diritto a parlare di sé e dell’osservatore stesso, ci rivela il loro contenuto spirituale. Si avverte lo stare sulla terra come in una condizione di passaggio, in un tempo attraversato dall’altrove e in un spazio abitato da presenze sempre pronte a svelarsi: tremiti, battiti d’ali, odori, voci, luci … Entro una dimensione creaturale di stampo luziano non ferma sul singolo soggetto umano ma che tanto più si invera quanto più raccoglie e ospita tutti i viventi, trovano posto le piante, la grande falena, la voce del vento protagonisti del componimento Saturnia Pyri. Zefiro, con il suo soffio primaverile caldo e brioso, da quid impalpabile si personifica in una presenza concreta che scuote i germogli, infondendo in essi il suo alito vitale. Sul muro uno splendido esemplare di saturnia pyri si fa figura dell’esistenza ferita, imprigionata e segnata costantemente dall’appartenenza all’altrove. Immobile, con la bocca atrofizzata, chiusa al cibo e al linguaggio, consuma così il suo breve transito terrestre, comunicandoci con le sue antenne filiformi e odorose «di non essere / che un tramite dell’anima, un passaggio». Vivrà solo il tempo necessario per assicurare la riproduzione e la continuità della specie. Sulle grandi ali le decorazioni di occhi di cui è dotata, difesa naturale per spaventare gli uccelli rapaci, richiamano gli occhi di Dio: nella visione creaturale di Morasso il «divino» o piuttosto il mistero sta anche dentro le cose stesse, è visibile sulla loro superficie. I versi lunghi, non allineati, così lontani dalla misurata compostezza classica del citato sonetto petrarchesco (Zephiro torna, e’l bel tempo rimena), solo apparentemente ci indirizzano verso una prosaicità che si fa transito terrestre, diventando piuttosto un trampolino di lancio verso l’aldilà.