Testo critico
Il testo critico di Elisabetta Motta è contenuto su foglio sciolto all’interno del libro d’arte
I – Ragni
Nel folto bestiario orelliano popolato di piccioni, lepri invisibili, scoiattoli che si rincorrono, gallinette immobili, una marmotta uscita al primo sole, la martora col suo viso aguzzo, la scolopendra dal roseo ventre, l’anguilla del Reno … fanno ora la loro comparsa due ragni «inquilini abusivi del soffitto di casa» che sostano poco distanti dal lampadario. Sono quasi invisibili ad occhio nudo «più piccoli di mezza formichetta / smarrita nell’acquaio». Sostano lì da giorni e giorni, mesi, forse un anno ormai: la sera scendono a trovare il poeta, sincronici come strani funamboli penzolano nel vuoto, basta un soffio a farli risalire. Seduto a riposare sul comodo divano di casa, il poeta li osserva. E subito si intuisce che l’oggetto del suo vedere è di quelli particolarmente atti a illuminarci sulla sua poetica, sul suo «spettacolo del mondo». Con l’occhio vigile e distante di chi non vuole disturbarli «per non turbare l’ordine naturale delle cose», il poeta conduce la sua inesausta messa a fuoco, fino a giungere alla visione. I due ragni stanno «l’uno a una spanna dall’altro», destinati a non avvicinarsi mai: essi divengono «una figura iconica, grafematica della realtà vera» proiettata fuori della sua mente. E se da un lato la loro presenza è chiaramente rappresentata graficamente dai numerosi due punti che abbondano nel testo, dall’altro possono apparire anche come «neri segni» di un «essenziale alfabeto» che potrà forse affabularsi in un futuro in cui, come scriveva Montale in Quasi una fantasia, «Tutto il passato in un punto / dinanzi mi sarà comparso», ma che già ora concede un istante di pura rivelazione. Entro questo scenario domestico si manifesta inaspettatamente la presenza minacciosa e inquietante di un terzo ragno (anagrammato in «rango») che «quasi robusto, nerastro» e proveniente da un altrove remoto e misterioso incombe tra i due «col fare inquisitorio / d’un commissario». Tutta la zona centrale del componimento viene scossa dal mouvement violent che, come scriveva Leibniz, la lettera /r/ viene ad assumere. Tale aspetto non può certo sfuggire all’attento lettore così come la fabricatio dell’intero componimento che presenta fin dai primi versi una vistosa paranomasia, formata da «scordo-riscopro». Nel finale sono la labiodentale sorda /f/ e la sonora-dentale /d/ a svolgere un ruolo capitale: cucite insieme alla /i/ col fil di ferro («divorando / filo e distanza: / per fingersi di nuovo / due punti nei dintorni / di me») ci introducono foneticamente e visivamente in un’atmosfera vibrante di tesa, drammatica, trascendente spiritualità.
È un testo giocato non solo sull’aspetto fonetico, ma anche sul bianco e sul nero (i colori della scrittura) e sulle ambiguità del rapporto essere-non essere, realtà-irrealtà-vuoto. Essere che può riempire di sé logos il vuoto, per ritornare al grand blanc di Mallarmé o protendersi verso un altro Dove.
Il tema dell’oscillare appesi a un filo, dell’essere in bilico (tra vita e morte, speranza e precipizio) è un tema che riaffiora in molti altri testi orelliani.1
Limitatamente a L’Ora del tempo ricordiamo «il fanciullo del paradiso» che nell’omonimo componimento inizia un rischioso “viaggio” appeso a un filo a sbalzo o ne L’estate «ma solo una speranza, tesa com’è del filo / a sbalzo, quando un tronco scende». Infine, in Frammento della montagna, la consapevolezza che esiste un supremo ordine universale genera dantescamente i seguenti versi: «Sospeso più che mai, più che mai stretto / al filo canuto di sole, / non perdei la speranza dell’altezza». E come non pensare di rimando al filo di fra Cristoforo, oggetto degli “accertamenti verbali” di Orelli?
Lo sguardo pietoso del poeta è di continuo reinventato e senza pregiudizi scettici sul reale e la sua poesia, riconoscendo la qualità visionaria dell’atto poetico, è tesa attraverso la forza di penetrazione della parola e del gesto ad aprire uno spiraglio sull’invisibile. Egli sa che tutto può farsi viatico d’altro e che anche un’impercettibile movenza di animali invisibili o quasi può aprire uno spazio luminoso dentro il reale. È l’imprevisto che accende la vita quello che giunge a far visita all’anziano poeta fin dentro la soglia di casa e che si genera da semplici occasioni quotidiane. Un «mistero» che ci risospinge con forza verso l’evidenza del miracolo. Assistiamo come lui stupefatti a questo prodigio e al farsi del suo gesto libero di poesia, consapevoli di partecipare ad un incompiuto in quanto aperto, reale accadere.
1 Per i numerosi esempi si veda di ANTONIO ROSSI, Sul filo sospeso: “Il fanciullo del paradiso” in Giorgio Orelli. I giorni della vita, catalogo a cura di Pietro De Marchi, Casa Croci Mendrisio, 2011, pp. 21-25.
Ragni
Da quando? se da giorni
e giorni, mesi ormai,
mentre riposo li osservo
e scordo e non senza stupore
riscopro: ombre d’acheni,
più piccoli di mezza formichetta
smarrita nell’acquaio: sempre lì,
chi sa mai se lo sanno
d’essere l’uno a una spanna dall’altro
come due nèi su una schiena,
inquilini abusivi del soffitto,
strani compagni della mia vecchiaia:
sempre lì, sempre soli, senza preda,
una volta soltanto è arrivato dal Nord
un ragno d’altro rango,
quasi robusto, nerastro,
è passato col fare inquisitorio
d’un commissario
tra i due come se fossero
sorvegliati speciali,
senza distrarli, è sparito
in fretta nel gran bianco,
e dunque non li ha visti
sincronici calarsi,
sostare penzolando
nel vuoto dove nemmeno si sognano
di cercare un appiglio
per una tela: intenti alle filiere
troppo presto esaurite e come
saggiando il peso d’essere, il mistero,
già pronti a risalire divorando
filo e distanza: .
per fingersi di nuovo
due punti nei dintorni
di me.
Giorgio Orelli
II – La buca delle lettere
La buca delle lettere1 è un testo ascrivibile fra i cosiddetti «cardi» orelliani, una serie di testi che vogliono essere «neanche tanto velenosi, ma piuttosto polemici». Oggetto in questione è la mania del risparmio, frutto di una mentalità cinica e della speculazione, che ha portato a sopprimere uffici postali, come quello di Ravecchia, e a rimuovere una vecchia buca delle lettere. Stava lì, gialleggiante, circondata da un pezzo di «natura naturale» abbandonata, appesa da decenni su un muro di cinta «d’un giardino arruffato», un intrico di palme, glicine, sambuchi, roselline, ulivi, cachi. Qualcuno, ogni tanto, avvicinandosi, vi lasciava scivolare dentro una missiva. Sparita anche la tortora, resta ora solo la voce del poeta a lamentarne la sorte.2
In questo testo la sensibilità ritmica e fonosemantica, in cui Orelli da sempre eccelle, è superata da quella cromatica: il suo occhio di poeta-pittore, intento a carpire il segreto della luce e dei colori, dà vita ad un componimento che assume l’autonomia pittorica di un quadro. A dominare sono i colori autunnali: il giallo, colore mirabile, caldo e vivace, spesso legato nei testi di Orelli a fiori come il calicanto o la ginestra o la forsiza, in questo testo poetico viene introdotto attraverso una serie di determinanti coloristiche sostantivate o tradotte in verbi che creano un vero e proprio campo semantico. Nei primi versi sovrapposto al rosso, colore della passione, dell’amore che tenacemente “resiste” ed eccede se stesso («TI AMO / DI PIÙ»), il giallo è reintrodotto al verso successivo tradotto in verbo («più non gialleggia»), legato al colore della buca delle lettere rimossa; infine viene riproposto mescolato al rosso nella variante autunnale dell’arancio dei cachi («un altro giallo»). Come scrive Pietro De Marchi, il colore nella poesia di Orelli «documenta la pertinace illusione di immortalità che contrasta con la lucida consapevolezza della precarietà del vivere».3
Si tratta di un motivo ricorrente nella poesia di Orelli, già presente nel componimento poetico Sinopie: «col passare del tempo, suggerisce il testo, del nostro ritratto non rimane che la sinopia, si smarriscono i colori vivaci della primavera e dell’estate della vita, ai quali allude la beffarda presenza della vegetazione rigogliosa, i peschi e i meli che ad ogni ciclico rinnovarsi della bella stagione si caricano di fiori e frutti».4
Analogamente ne La buca delle lettere lo stesso tema viene riproposto attraverso la natura esuberante del «giardino arruffato», posto in contrasto con il gesto negato dell’ultracentenario che potrebbe cogliere della vita ancora più d’un frutto «ma non si vede mai». Interessante notare che nella prima versione del testo apparso sulla rivista “Viceversa Letteratura” (n. 5, 2011) non c’è traccia del gesto mancato dell’ultracentenario: la sua introduzione nella versione definitiva, se da un lato arricchisce la scena di un importante particolare, fornendole più vivezza, dall’altro mostra il superamento da parte del poeta della frontiera del “non detto” in direzione di una maggior esplicitazione verso “il detto”, anche se non tutto è svelato e la poesia continua a portare con sé “un segreto”. Pertanto, se da un lato ci verrebbe la voglia di andare a suonare al campanello dell’abitazione dell’ultracentenario per saperne di più, dall’altra ben sappiamo che la sua identificazione nulla aggiungerebbe in termini di conoscenza poetica. In quel gesto trattenuto di uomo d’oggi, ma anche dei tempi favolosi della cacciata dall’Eden, è rappresentato simbolicamente il gesto degli avi ignoti ed è impossibile risalire oltre le origini del suo buio.
Secondo Max Kommerell ogni lotta poetica con l’indicibile tende, attraverso ed oltre uno stremarsi del linguaggio, a risolversi in gesto. L’intera opera di Orelli è un bellissimo frutto di questa tensione, che è poi un continuo protendersi verso il mistero e il vero. Senza tregua l’esercizio della sua attenzione sa cogliere i gesti in cui la vita si confessa nelle sue debolezze e nudità e in cui invece sa “resistere” e rinnovarsi e rifiorire nuovamente. Orelli sa bene cosa è scoria e cosa non lo è. Sa cosa invecchia e cosa ringiovanisce. Ce lo dimostra la forza della sua parola poetica che, come scrive De Marchi,5 riprendendo un’espressione di Orelli stesso, ci appare «né giovane né vecchia» e dunque senza tempo.
1 Testo poetico pubblicato in una precedente versione sulla rivista “Viceversa Letteratura” n. 5, 2011 p. 13.
2 Per la spiegazione fornita da Orelli sui “cardi”, si veda l’intervista a Giorgio Orelli, a cura di Yari Bernasconi, in “Viceversa Letteratura”, n. 5, 2011, pp.16-17.
3 Pietro De Marchi, Dove portano le parole, Manni, Lecce, 2002, p. 12.
4 Ibidem, p. 16.
5 Giorgio Orelli. I giorni della vita, catalogo a cura di Pietro De Marchi, Casa Croci Mendrisio, 2011, p. 9.
La buca delle lettere
Dove mirabilmente
giallo su prima mano
di rosso anche d’autunno
resistono ardite parole:
TI AMO
DI PIÙ
più non gialleggia la buca
delle lettere, a lungo appesa al muro
d’un giardino arruffato:
inghirlandata di glicine e fragili
roselline, in un folto d’ulivi,
ove adesso si leva
un altro giallo, l’arancio dei cachi
che sfiorano la casa
dell’ultracentenario (con un braccio
più d’un frutto potrebbe raggiungere,
ma non si vede mai):
lì, come fosse
nel posto più giusto, più quieto,
sembrava riposarsi
in se stessa l’antica cassetta,
nel suo caldo colore.
Sparita anche la tortora
che dalla cima d’un lampione
ne lamentava la sorte.
Giorgio Orelli