Letteratura e critica - Libri d'arte
Il lavoro dell'artista è il continuo scavo nel mistero Francis Bacon

Frammenti di nobili cose

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FRAMMENTI DI NOBILI COSE di MASSIMO MORASSO (Passigli, 2023)
recensione di Elisabetta Motta edita sulla rivista
clandestinohttps://www.rivistaclandestino.com/frammenti-di-nobili-cose-massimo-morasso/


 

Frammenti di nobili cose (Passigli,2023) è un libro che segna una nuova tappa di un lungo percorso poetico costruito da Morasso nel corso degli anni con una vera e propria progettualità, alla ricerca di un senso della vita e delle cose. Due soli sono gli imperativi a cui il poeta da sempre obbedisce: il compito di imparare a vedere – l’opera della vista, che lo porta a farsi medium percettivo dei segni, e il compito di imparare ad amare – l’opera del cuore, che lo porta a cercare di conoscere l’altro nella sua alterità.
Nel ciclo poetico denominato Il portavoce (che include oltre La leggenda della Primavera (L’Obliquo 1997-2012) Viatico (Raffaelli, 2010) e La caccia spirituale, Jaca Book, 2012) il poeta aveva espresso la pluralità originaria dell’ identità attraverso una voce altra da sé. Nell’Opera in rosso (Passigli, 2016) vi era stato un recupero dell’ io fanciullo e della memoria. Dopo la parantesi surreale e ludica di American Dreams (Interno poesia, 2019), ecco che Frammenti di nobili cose può essere considerato il libro del post ritrovamento dell’identità. Il poeta annuncia già nel primo testo con cui si apre la raccolta di aver preso una nuova direzione, ci dice di aver bruciato la memoria e di creare da solo i ricordi, avendo assorbito la visione del mondo dentro di sé per far luce fuori:

Per anni, in cerca di sollievo,
ho tratto dai ricordi le parole,
ma adesso il mio paesaggio si è invertito.

Ora ho levato
il mondo e
vivo solo negli anfratti
meno esposti del reale:
sono una nostalgia celeste
ardentemente arresa al suo delirio.

La raccolta rimanda a «Francesco Petrarca che riecheggia in antifrasi perfino nel titolo» come spiega Morasso stesso nella nota d’autore (p.109) e si caratterizza per un periodare breve, fatto appunto per frammenti, con versi liberi, con molti riferimenti anche a numerosi autori classici e contemporanei da Novalis a Rilke («…negli infiniti mondi / l’angelo e la rosa / perfetti nella loro simmetria / senza ali o spine danzano / in un eterno girotondo.») (p. 70) a Yeats, a Celan a Cristina Campo, a Mario Luzi («Due sono le sfere della vita / o è un’ unica appartenenza…») (p.24) a Giorgio Caproni («Bello, sarebbe dialogare con Caproni, quell’omo orecchio /assoluto e finissimo (a) teologo / per il quale cosa importa / se Dio esiste davvero oppure no» (p.101) a Montale («Spesso / mi è capitato di incontrare / il bene di vivere.» (p.35).

Il libro è diviso in sezioni: la prima che si intitola Geopatia, allude alla «sofferenza sulla terra» le altre Nel sapere della distanza, Diarietto Metafisico, Didascalie e discanti segnano l’allontanamento dal materiale, pure evocato e indagato con una urgenza di distacco. Vi è poi la conclusiva Spine poemetto d’occasione, scritto, precisa in nota  l’autore, «per Spinarium, una mostra dell’artista Roberto Pietrosanti che si è tenuta a Roma nel 2018». A proposito del lessico notiamo come questo presenta molti termini afferenti alla sfera spirituale come: amore, anima, Dio, nostalgia, eterno. E di che natura sia il suo cammino, il poeta lo comunica in un testo, Materia, viaggio (p.61) che fa parte della seconda sezione:

C’è in questa materia
che geme e stride
un vuoto un’attesa
un dipendere da Dio
c’ è in questo viaggio
una certa dose di spirito
che unifica stringe
tutto con tutto
anche l’idea della fine.

Poesia metafisica dunque? Si, se non fosse per una vivace quanto tenace adesione a una realtà insieme materiale e spirituale. È una poesia dell’Assoluto evocato («[…] / nell’ ora dei bilanci, in un eccesso / di dolore e di buio» p.18) con una nostalgia di ascendenza romantica in diversi parti del libro: nel primo testo, in cui il poeta scrive: «sono una nostalgia celeste»; un altro esempio è a p. 69: «è nostalgia dell’altrove / lo strappo dentro / di chi vive in esilio / e patisce inutilmente l’infinito / che noi siamo e ci manca». È un infinito che ritorna in lampi di leopardiana memoria nell’omonimo testo, in cui il poeta va comparando voce e silenzio:

Compari voce e silenzio
son giochi di luce le parole
t’ingegni per riunire
nel diapason del cuore le potenze …
dai nomi ai dormienti
ali presaghe ai venti.

Un infinito che è meta della verticalità di una parola ricca di pathos religioso, riconducibile entro l’alveo di una matrice cristiana, come richiama il prologogiovanneo: «In principio fu la Parola/ e, per sua grazia, i mondi generati: / la realtà». Parola tesa nei versi del poeta a «dare voce alla scintilla / dell’eterno che mi abita nel tempo» (p.21), nata da un «dettare» di ascendenza dantesca, generata da un soffio vitale che «spira». Nel testo di p. 11 ben si esemplificano alcuni passaggi importanti per delineare il processo mentale e vitale che innesca la poesia di Morasso, alla presenza di un fenomeno inafferrabile, misterioso e indomabile, fin dall’antichità legato al manifestarsi della divinità di cui si fa portatore: il vento. La poesia nell’accezione dantesca è concepita come un dar voce a «un fiato» a «l’ Amor che ditta dentro» che in Dante è uno che «spira»:

Il vento che mi detta
soffia, stamattina, ricordandomi:
per me tu parli,
per me tu susciti i significati
e unifichi le cose alle parole
sposandole nei nomi.
Il refolo che soffia
al mio risveglio ha sussurrato:
per me tu insegui il vero,
la luce del tuo fuoco,
la tua chiarezza oscura, solo tua,
di te che incontri un tu
nella semenza provvida, del Bene.
[…]

Morasso è un poeta che opera interrogando il mistero che abita fuori e dentro di noi, rivendicando, di rimando, una funzione sacrale della poesia e della letteratura:

m’ imbatto nei nomi come in un miracolo,
li assemblo tra i segni in cui mi riconosco
e sillabo, sgranando in una riga
a mezza altezza, terra e cielo,

poesia non è, dove non c’ è mistero…

Una questione capitale questa del mistero in poesia, affrontata insieme alcuni anni fa in un dialogo pubblicato nel mio libro Intervista La poesia e il mistero, La Vita Felice (2016) di cui riporto una sua dichiarazione: «In un certo senso tutto è mistero per me. La mia mente non si è mai appagata della natura fisica della realtà. Ogni cosa, io la intuisco in quanto parte di un mistero più grande, e la sento rispondere a una dinamica generativa che affonda nel mistero.» (p.147).
Concludo questa breve nota di lettura, ben sapendo che la raccolta meriterebbe un maggior approfondimento e una lettura integrale, riportando una poesia dedicata a Mario Benedetti (p.40) «Uno che / poeta lo è stato per davvero» nella quale mi pare di intravedere il senso comune ampiamente condivisibile del continuare a fare poesia oggi e del farne dono a chi sa ascoltare:

Dico, un
amico che è lontano. Uno che
poeta lo è stato per davvero –
uno che anche adesso lo è,
e lo resta per sempre.

Comprendimi. Non intendo
Un cembalo squillante
Come tanti, ma un uomo
simile a una foglia
quando il vento l’incalza,

un essere che trema
perché è vivo,
e quando trema e si raccoglie
parla, perché è bello –
perché, fra noi, chi deve farlo, fa così.

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