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Introduzione di Elisabetta Motta
Un moto irrefrenabile muove i passi e i versi di Davide Rondoni, inesausto esploratore del cuore umano. Egli ha affidato la sua esperienza d’uomo alla poesia intesa non come un’ancora di salvezza, ma come diario di un viaggio unico e irripetibile, che dantescamente approssima al mistero dell’essere, al punto che si può dire – riprendendo un’espressione che Domenico De Robertis utilizza per Dante – che per lui «conoscere e poetare diventano un unico movimento». Essa non ha la pretesa di essere una rivelazione definitiva sulle cose, ma piuttosto ci invita a prender coscienza di ciò che siamo e, come nel vedere dantesco, ci mostra il grande moto per cui siamo fatti. In un’epoca in cui il viaggio viene realizzato sempre più virtualmente sulla rete informatica, egli è spinto invece a compierlo di persona. Preso entro un vortice di appuntamenti, conferenze, reading poetici, si sposta quotidianamente. I suoi itinerari comprendono i paesaggi di una «Italia meticcia», fra Milano, Bologna, Firenze, ma anche i più disparati luoghi della terra: da Berlino a Caracas, a Rabat, da Freetown a New York… Lo scatto in avanti, il toscanello lasciato a metà, il parlare veloce sono indizi di un uomo che ha sempre fretta, concentrato qui e altrove. Singolare il suo look, costituito da improbabili cappelli, numerosi braccialetti collezionati durante i suoi viaggi, da borse di pelle che sembrano bisacce, sandali da pellegrino. Uno che potreste incontrare al tavolo di un bar, entro la luce bianca di una stazione, in aeroporto o in qualsiasi altro luogo senza tempo. In partenza per un suo speciale viaggio. Non un viaggiatore moderno. Un viaggiatore nato, uno che parte per partire. Forse un missionario. O forse un vagabondo, un viandante dalle «suole di vento», emulo di Rimbaud o di Kerouac. Un uomo di misteri, certo. In viaggio con e dentro le parole. Col cuore che batte e si accende al ritmo di un samba, un blues, un tango o una musica rap. Già, perchè come scriveva Jean-Pierre Lamaire «C’è una musica nel mondo» ma «se non canti non la puoi sentire».
Nella sua discesa e risalita dagli inferi del mondo contemporaneo – volta alla ricerca di un canto che sia ancora umano – egli non teme di spingersi in profondità, per cogliere il senso di vuoto generato dalla crisi spirituale e dalla acuta coscienza di essere “mancanza”, né teme di toccare con mano la sofferenza portata dalla miseria e dalla guerra. La sua poesia nasce sempre dall’incontro con la realtà ed è una continua messa a fuoco sul «bellissimo viso ferito del mondo». Perfino luoghi anonimi e banali come i bar, i supermercati o gli autogrill (per i quali egli rifiuta la definizione data da alcuni sociologi di essere «non-luoghi», ribattezzandoli piuttosto come «luoghi dell’infinito») possono fungere da naturale contesto dei suoi componimenti o divenire luoghi di ispirazione poetica. Dietro l’irrefrenabile dinamismo sfiancante, ai limiti dello stress psico-fisico, si avverte in lui più che il desiderio di una esistenza avventurosa (pur invocata negli anni giovanili al grido di «Voglio una vita esagerata» di Vasco Rossi), una fame autentica di vita, di realtà, colta nella sua componente di materia e Mistero. E c’è un oggetto, una preda. «È Lei. La poesia autentica, che è quella che rende onore alla vita perché c’è» – come diceva W. H. Auden. È una «bellissima ribalda – scrive Rondoni – che non si accontenta di un giorno e, quando afferra un cuore sua preda, non lo abbandona più». Poetare per Rondoni è dunque come entrare in un innamoramento che è straniante e che rende altro da sé, è dantescamente una obbedienza a «L’Amor che ditta dentro». È per Lei, la Signora, che egli si fa viandante e guerriero. Per Lei intraprende viaggi, avversità, mille battaglie e una continua lotta con l’indicibile che, attraverso e oltre uno stremarsi del linguaggio, tende a risolversi in un gesto. Per Rondoni «la poesia è un gesto che il poeta compie nella trama dei gesti quotidiani, dotato però di una proprietà speciale, quella di farci vedere che il mondo con il suo mistero succede, che la vita è un accadimento». Un gesto dunque non per evadere dalla realtà, sublimandola o negandola, ma che ne riconosce l’importanza e le dà il giusto rilievo. Spostare i capelli dal viso e Passare delicatamente la mano sono due gesti poetici di “misericordia” e di “resistenza” che nascono dall’ amore per la vita e dal rispetto per il mistero che essa porta con sé. A questi si aggiunge quello del Mettere a fuoco dentro la realtà, fino a giungere alla visione. Ed è proprio nella rimessa a fuoco di parole vitali per la nostra esperienza, parole come vita, morte, amore, fede, libertà, parole attorno alle quali nei secoli il pensiero e l’arte si sono infiammati di bellezza e forza, che la poesia di Rondoni si accende e gioca la sua più alta scommessa. La forza eversiva che si esplica attraverso tali gesti, porta ad una relazione non negatrice con il mondo e alla possibilità che attraverso la coscienza della realtà si stabilisca e cresca la coscienza su di sé. Una strada segnata già da Mario Luzi, uno dei “padri” di Rondoni, prefatore dei suoi primi versi e compagno di tante conferenze, letture e discussioni, poeta con il quale egli condivide fin dagli esordi il credito accordato al reale e il valore fondante dell’esperienza non disgiunta dalla naturalezza. Anche la memoria non viene intesa da Rondoni come un semplice archivio o un rifugio per sfuggire al presente, ma come un grande movimento nella storia individuale e collettiva che congiunge presente, passato e futuro, un gesto al presente che potenzia l’esperienza. E, come per Luzi, la poesia è il luogo in cui l’esperienza umana si svela, si tende nelle sue domande più alte e ineludibili. La dimensione interrogativa non solo caratterizza lo stile di entrambi (con un evidente debito leopardiano) ma ne costituisce una specie di fuoco, di motore sempre rinnovato della voce. Luzi nella prefazione alla sua prima raccolta, Nel tempo delle cose cieche, ha scritto che «molte poetiche e tecniche dell’avanguardia hanno spianato la strada a Rondoni ma nessuna è coincidente; è un respiro autonomo, uno slancio», indicando così un debito e siglando nello stesso tempo una liberatoria, «antivedendo forse (secondo l’interpretazione che ne ha dato lo stesso Rondoni) una strada più esposta ai drammatici quesiti intorno alla libertà».
È quella di Rondoni una voce non sovrapponibile a quella di altri, mai appagante e consolatoria, ma urgente e dialogante, spiazzante talvolta per il suo andare direttamente al cuore delle cose, senza troppi giri di parole. Una poesia antiretorica in cui non si avverte mai lo sforzo del gesto letterario, ma si avverte piuttosto la presenza del poeta come compagno di viaggio, coinvolto e stupefatto come noi per il mistero di quanto sta accadendo. Una poesia che cerca di con-fondersi con il movimento del mondo misterioso, seducente, drammatico.Drammaticità che Rondoni porta in scena anche attraverso una ricca produzione di testi poetici teatrali e di realizzazioni sceniche, molti dei quali ispirati ad opere d’arte. Essi, vivendo nella sostanziale coincidenza della genesi del gesto artistico, poetico, pittorico e scultoreo fanno tornare in vita l’ antico legame fra poesia e teatro. Quella del teatro non è una esperienza collaterale per Rondoni, ma connaturata con il suo fare poetico. La sua poesia “vive” sulla scena e, a partire da Il bar del tempo, si può dire che sia un grande teatro d’umanità, una esperienza a cui si è invitati a partecipare. Scrive Rondoni: «La poesia, anzi, le buone poesie sono come quei tronchi cavi o quegli archi naturali di pietra che fanno suonare il vento, o le voci in modo insolito. E il vento e le voci sono la vita, le idee, le pene e le speranze di ognuno e di tutti». «Un grido unanime» scriveva Ungaretti, indicando non una unanimità ideologica o stilistica, ma di “tensione”, la stessa che avvertiamo nella poesia di Rondoni. Egli ha dichiarato in Parla la poesia, dice, che il suo canto non nasce dalla solitudine. In esso confluiscono tutti i fili che ha tessuto nel laboratorio della sua esperienza: dall’ essersi ritrovato fra le mani il dono dell’uso della parola in modo poetico, vivo, pieno di tensione verso il reale in persone come i suoi nonni, ad una fitta rete di affetti familiari, di amicizie, fino all’ incontro con grandi maestri e “padri”come Ezio Raimondi, Luigi Giussani, con il magistero di Giovani Paolo II, di Benedetto XVI e di papa Francesco e con i poeti Luzi, Testori, Caproni, Bigongiari, Betocchi e tanti altri compagni di viaggio. E poi le letture di poeti italiani come Dante, Leopardi, Ungaretti e di poeti stranieri come Rimbaud, Baudelaire (dei quali ha tradotto i testi), Claudel, Péguy, Eliot, Rilke, Heaney, Bonnefoy che hanno segnato in qualche modo il suo percorso. Con il suo lavoro di critico, mai considerato come un impegno “a parte” rispetto a quello poetico, ci ha lasciato su di essi pagine intense.
E infine l’incontro con i grandi artisti: Michelangelo, Lotto, Niccolò dell’Arca, Cellini, Caravaggio, fino ai contemporanei Martini, Bacon, Paladino e agli amici Pignatelli, Manfredini, Samorì, Galliani e numerosi altri ai quali ha dedicato i suoi scritti d’arte. Il suo canto li accompagna, amplificandone il singhiozzo o il grido, condividendone l’obbedienza e il sacrifico, la sofferenza e la gioia, fra furia e desolazione.
Promotore di cultura, nel corso degli anni ha organizzato importanti eventi culturali e accesi dibattiti sulle questioni che più gli stanno a cuore: dalla scuola, all’eutanasia, all’aborto. Attraverso il “Centro di poesia” di Bologna ha sempre sostenuto in egual misura sia i numerosi poeti-amici già affermati che i più giovani esordienti, rivelando in questo una sensibilità rarissima. Fervido anche il suo lavoro di giornalista, che si è espresso in una ricca messe di articoli pubblicati su testate nazionali, “L’Avvenire”, “Il Sole 24ore”, e sulle riviste “Tracce”, “Tempi” e “ClanDestino”, lavori che si caratterizzano per un forte segno morale e per la polemica mai sterile contro i mali del secolo (il soggettivismo, la tentazione del nichilismo, la mancanza di speranza…) e che si sono rivelati utilissimi anche come chiave di lettura dei suoi testi poetici. Scrivere, recensire, poetare, polemizzare sono modi diversi per procedere sempre nella stessa direzione e precisamente nella scoperta di ciò per cui vale la vita di un uomo e di un intero popolo. E la rivelazione a cui egli giunge, che ci viene sbattuta in faccia nell’omonimo componimento, senza giri di parole e con una frontalità che quasi sconcerta, è che nella vita Possiamo soltanto amare. È sull’amore che si gioca l’intera partita della nostra esistenza. Esso va inteso non come un sentimento, ma dantescamente come motore che «muove il sole e l’altre stelle». Un amore che implica conoscenza, pazienza, comunione e che si fa “alto”, sull’esempio di Cristo, fino a divenire dono gratuito di sé, sacrificio. È questo l’amore di cui Rondoni parla e si fa carico in prima persona, in una sorta di imitatio Christi, affascinato dal Mistero dell’ Incarnazione che vive non come un problema teologico, ma legato all’esperienza e alla propria vocazione poetica. La “commozione” e “lo stupore” generati dall’ avvenimento di Cristo (categoria di fatto presente sia in Claudel che Péguy, entrambi autori di riferimento per Rondoni), sentito come un evento centrale della propria esistenza ed esperienza poetica, alimentano lo spirito cristiano dei suoi versi. Determinante nella sua ricerca è stato l’incontro con San Paolo e con la sua opera, di cui ha colto la straordinaria modernità. Vivere della Parola di Cristo, credere nel Logos della croce e farne la ragione della propria esistenza: è stata questa la sfida dell’apostolo, per la quale ha speso la sua vita. Un sfida raccolta da Rondoni, la cui estetica e il cui pensiero ruotano continuamente intorno al mistero della Parola incarnata. Consapevole che la crisi dell’uomo contemporaneo non è tanto una crisi di fede ma di speranza, al punto che questa parola suona come una parola inaudita, che genera stupore e talvolta scandalo, torna a parlarcene proprio attraverso le parole paoline. Il Dio di Rondoni è una presenza concreta e reale, il suo «schianto» è qui e ora, per questo egli si permette di dargli del tu, intessendo con lui un dialogo vivo, sempre in fieri, che in alcuni componimenti giunge a toccare le soglie della preghiera o si fa esso stesso preghiera. Testi come Mio Capitano, La cosa inaudita, Al lettore, suite in sei strofette si presentano come testi “aperti” e possono offrire molti elementi di riflessione-guida per una preghiera personale del lettore.
Poeta di rude grazia e dolce furia, Rondoni con i suoi versi ci invita ad amare il cuore profondo della vita e ad affrontare l’esistenza con letizia alla ricerca della gioia, quella vera.
Avversato da molti che lo ritengono troppo cattolico o che criticano la sua appartenenza al movimento fondato da Luigi Giussani e reputano imbarazzante se non inconciliabile il lavoro di artista e la cattolicità, egli ha sempre risposto con le stesse parole di Flannery O’ Connor «Proprio perché sono cattolica non posso che essere un’artista». È evidente che siamo di fronte ad un poeta che si pone dunque rischiosamente nell’onda, oggi assolutamente minoritaria, di coloro che osano ancora scommettere sul cristianesimo come grande risorsa per l’uomo e per la poesia. Ciò giustifica il taglio religioso dato a questa indagine: in lui l’argomento religioso non è mai è penetrato con una “logica a parte” che non sia la stessa con cui egli affronta gli altri argomenti e questioni anche poetiche, e pertanto indagare su tale aspetto significa far luce indirettamente anche sulla sua poesia. Del resto la poesia di Rondoni acquista complessità di raccolta in raccolta e chi ne vuole sondare gli strati deve decidere una linea di attraversamento. Lungi dal volerne dare un’immagine completa, con questo taglio interpretativo, certamente parziale, si intende tuttavia richiamare l’attenzione del lettore verso il cuore più profondo della sua opera e direttamente alla fonte della sua ispirazione poetica.
Poco amato dai critici e dagli accademici che preferiscono una poesia forse più letteraria e più colta o più ideologica, Rondoni si rivela una presenza scomoda, talvolta ingombrante. Il suo voler portare la poesia alla prova della lettura pubblica, liberandola dalle sperimentazioni sterili, per ridarle voce e aria sulla scena, è ritenuto da molti un azzardo. Così come avventato può apparire il suo accostare la poesia al tango o al blues. Per non parlare poi del suo stile, mai ascrivibile entro una ipotesi stilistica a priori e restio ad ogni restrizione formale. Le sue volute ritmiche e timbriche variano molto da un testo all’altro: dalla fase più sperimentale delle prime raccolte a mimesi del parlato, da fugati jazzistici a ballate blues, dal rap a cadenze da lied. Esso è sostenuto da una tensione talvolta debordante e che può apparire eccessiva, ma che in realtà trova una giustificazione nell’ adattabilità al movimento della vita. Tuttavia l’ausilio critico non è uno strumento imprescindibile per comprendere (nel senso di prender con sé) la sua opera e misurarsi con il fuoco che la anima. Occorre innanzitutto rompere gli schemi, le distanze, allontanare la pigrizia a cui ci si abbandona per non mettersi in gioco. E poi ci vogliono mente, per seguirlo nel suo andare pensoso, ampio respiro e una gamba ben allenata per tenergli il passo nel suo andirivieni. E soprattutto ci vuole coraggio (nel senso etimologico di cuore). Proporre questa lettura interpretativa di Rondoni è certamente rischioso perché si tratta di sondare l’esperienza di uno scrittore vivente, che sta ancora lavorando al suo edificio di poesia e di pensiero, senza poter vedere compiuto il suo lavoro e, come diceva Eliot, ogni opera al suo apparire muta qualcosa in tutte le sue opere precedenti. Pur non potendo dunque prevedere gli esiti futuri e il corso che prenderà la sua poesia, è certo che la sua voce sarà una di quelle che lascerà il segno, rivelando la sua forza nel tempo. Molti che ascolteranno il suo «abbaiare» di cane rivolto alla luna alzeranno gli occhi sorpresi e stupiti, avvertendovi qualcosa di inaudito, e gli faranno eco, altri ringhieranno, altri ancora ne seguiranno le piste con furia o letizia animalesca, fiutando i toscanelli, raccogliendo i mille foglietti e i disegni disseminati per via.

Recensioni
Luigia Sorrentino La cosa inaudita, www.poesia.blog,rainews24.it 21 dicembre 2015
Cinzia Demi, La cosa inaudita, 12 aprile 2015 – Clicca per PDF.
Adriano Napoli, La cosa inaudita, 24/06/2014
Gregory Pell, La cosa inaudita, Lotus-eater, rivista on line, n.1 2014 alle pp. 67-69 – lotus-eatermagazine.com
Telepace: Intervista radiofonica ai microfoni di Radiopace