Testo critico
È l’aria la vera protagonista di questo componimento di Davide Ferrari, legato ad un ricordo della sua infanzia e riconducibile al suo apprendistato linguistico e poetico. Se come nel poeta Franco Loi, suo maestro, talvolta anche nei suoi versi essa costituisce la sfasatura fra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere, fra noi e Dio, in questi versi, al contrario, il vuoto d’aria è piuttosto un elemento essenziale, una ricchezza. È lo spazio necessario attraverso il quale il bambino-poeta muovendosi a gattoni sul pavimento può scoprire il mondo, in cui può gioire e ridere sulle spalle della balia Ersilia mentre gioca a fare il «birocc». È il veicolo attraverso il quale si propagano i suoni, che si fanno voce e poi canto: il nutrimento del respiro del mondo. Perché la voce si spegne se non spira e «la möra in d’i canton di mür, in d’i cifon /e in cassafort» se non è affidata all’amore, che non conosce altra via se non quella del vento.
Il testo poetico di Davide Ferrari, scritto in dialetto pavese, ci racconta come l’apprendimento di tale lingua sia avvenuto in modo assolutamente amorevole e naturale, senza alcuna regola, imitando Ersilia, la maestra senza scola a cui ha dedicato la raccolta Dei pensieri la condensa (Manni, 2015). Si legge nei ringraziamenti posti a chiusura del volume: «Devo alla sua onestà e intelligenza questa lingua meravigliosa che mi ha insegnato nei primi anni di vita, e lo ha fatto bene, preferendola ad un italiano che riteneva non padroneggiare allo stesso modo.»
Il dialetto costituisce per Davide Ferrari una grande risorsa: è una lingua palpitante e intuitiva ma anche legata al reale e concreta, è fatta di terra e sudore, carne e sangue, così come si allude nella metafora contenuta nei seguenti versi: «Sgagná la carne’ d la to lengua / in s’ la me lengua». Qui il mordere può ricondurre anche alla fame autentica di realtà che si avverte nei suoi componimenti, riconosciuta nel suo vero volto di materia e mistero, di dantesco nodo in cui vige un incastro del carnale nello spirituale, dell’eterno nel temporale. Scrivere per Davide Ferrari è qualcosa di più che conservare la voce profonda della vita è «fa l’anima incarnà / in d’la memoria d’un queicoss». È lasciarsi guidare dalla magia della lingua, dei suoni, prima ancora che dei significati. È guardare la realtà anche nelle su forme più semplici con gli stessi «occ / bambocc» dei tre anni. È affidarsi all’intuito per scoprire le analogie e le corrispondenze segrete, sovvertendo le regole della razionalità e le proporzioni come quando da bambino, nelle sue esplorazioni, camminando a quattro zampe sul pavimento di casa «dü piastrell » gli parevano «gross me una piassa ». È sapere cogliere la magia della luce come quando lo straccio con cui Ersilia puliva il pavimento e i vetri produceva innanzi a lui per risonanza i prismi e le scale di colore e ciò bastava a catturarlo e a farlo prorompere in un riso di stupore.
Le forme stesse che provocano, generalmente, avversione o ripugnanza, destavano in lui attenzione e una trasparente meraviglia. Come Useppe, l’indimenticabile protagonista de La storia di Elsa Morante, il poeta si ritrae bambino mentre assisteva estasiato a una ronda di «burdoch » come fossero cavallucci in una prateria. Il fascino esercitato da quegli animali anche oggi si conserva immutato. A differenza di Kafka, nell’ immaginario poetico di Davide Ferrari lo scarafaggio non rappresenta la metamorfosi conclusiva del protagonista , avviato ad un finale tragico e liberatore ma piuttosto, come in Bestie di Federigo Tozzi, l’animale costituisce l’immagine di partenza dell’uomo che si misura con il tempo e con la vita, che lo segna a poco a poco. I tre «burdoch», che egli ha riprodotto nell’incisione che accompagna la poesia, sembrano custodire un segreto che ci riguarda da vicino: in esso intuiamo una traccia del mondo al quale anche noi appartenevamo, prima dell’insanabile frattura tra natura e cultura. Porsi «in scia a la via di burdoch» non significa dunque cercare di svelare il segreto ma riconoscerlo come tale e mostrare il mistero che accomuna l’uomo alle bestie e alle cose nel mondo.