
Risvolto di copertina
Uno sguardo colmo di pietas, filtrato da una sottile vena di umorismo, accompagna iv lettore lungo questo splendido racconto in cui, rievocate dal fluire dei ricordi, appaiono le Vecie di Spresiàn con i loro gesti e le loro “facce tragiche o rassegnate o smarrite”, afferrate un attimo prima che scompaiano nel burrone dell’oblio. Tali esistenze minime, solo grazie all’attenta e commossa partecipazione dello scrittore, divengono dei microcosmi carichi di una straordinaria umanità. Diversi fili conduttori tessono la trama: la solitudine, l’amore, l’attraversamento di confini di ogni genere. L’uso di termini ed espressioni dialettali caratterizzano la narrazione, come una macchia di colore. Accompagna lo scritto una litografia di Mario Mondo che, in un continuo alternarsi di chiaro e scuro, luci e zone d’ombra, ci offre un distillato di esistenze intrecciate con strade che appaiono come solchi, rughe sulla pelle segnata dal tempo, percorsi possibili forse solo desiderati. L’intervento grafico non funge da semplice illustrazione, ma si integra perfettamente con il testo riconducendolo, attraverso l’uso della mappatura del territorio veneto, entro precisi confini geografici.
Intervista ad Alberto Nessi sul testo “Le Vecie”
a cura di Elisabetta Motta
Com’è nato questo racconto?
Il racconto è nato dalle visite fatte alla madre di mia moglie, ospite per qualche tempo di una casa di riposo a Spresiano, provincia di Treviso. Tornato in Ticino, il testo è venuto da sé, fatto scaturire, forse, da una poesia di Virgilio Giotti rimasta incastonata in qualche angolo della mia mente e che cito nel testo: “I veci che “speta la morte”. Ma i veci di Giotti – questo grande poeta misconosciuto- aspettano la morte sulla porta delle chiese dei paesi, nelle corti, su una sedia ai bordi di una strada dove giocano bambini e dove passano carri, sulla marina di Trieste seduti su mucchi di corde, accucciati per terra a guardare i vaporetti, sulle porte delle botteghe in città vecchia, seduti in un piccolo caffè con davanti due soldi di acqua col mistrà. Ora questo mondo è scomparso. I veci e le vecie di Spresiano aspettano la morte in un lager ovattato: il genocidio della provincia è stato consumato e ha consumato in loro ogni legame con la civiltà contadina che li ha visti crescere. La provincia ha lasciato il posto alla periferia.
L’assunzione di un punto di vista diverso dal proprio (in questo caso quello di tua moglie) è un espediente a cui ricorri spesso nei tuoi racconti?
La proiezione-identificazione aiuta a trovare la voce. In questo caso ci è voluto poco, per identificarmi con mia moglie. In altri casi il processo è più misterioso e complesso. Nel mio ultimo libro, per esempio, faccio parlare in prima persona un rivoluzionario dell’Ottocento e ciò mi induce a fare un salto nel tempo e a riversare nel personaggio mie fantasticherie mascherate. Il cambiamento del punto di vista serve a liberare l’immaginazione.
I personaggi che compaiono sono reali, verosimili o frutto della fantasia?
Non so scrivere se non di ciò che ho esperito, direttamente o indirettamente. Esperienze anche minime, come possono essere una persona incontrata per strada, una frase letta o ascoltata, un’emozione. La letteratura, per me, è figlia dell’attenzione e dello stupore. In questo racconto ho dato vita a persone incontrate per brevi momenti in una casa per anziani e dintorni. Solo un dettaglio è inventato: l’Erminia che se ne va sulla statale con una sedia appesa al braccio a trovare sua figlia. Questa è una mia invenzione, originata da una notizia di cronaca letta su un giornale qualche tempo fa.
Nelle tue poesie e nei tuoi racconti compaiono molti ritratti di persone anziane. C’è fra costoro qualcuno in particolare che ha lasciato un segno indelebile nella tua vita e che ami ricordare?
Nelle mie opere parlo della vita, non sono specializzato in vecchi… Ho racconti che parlano di bambine, di adolescenti, di donne in cerca di una ragione di vita: non ho preclusioni; dipende da chi mi viene incontro. Per fare un esempio: nella mia ultima opera narrativa, ambientata nell’Ottocento, il protagonista è un libraio di origine ticinese che vive a Lisbona e che si toglie la vita a trentadue anni. Ma se penso ai vecchi, la memoria va alle ex sigaraie che ho intervistato per il mio racconto Manifattura Tabacchi. Oppure al vecchio di Caneggio che mi ha raccontato la sua vita di emigrante nella Svizzera tedesca. O a Togn Boldini,che nel suo antro fece rivivere la sua partecipazione alla guerra di Spagna come volontario. I vecchi hanno tante storie da raccontare, ma nessuno vuol stare ad ascoltarle. Un giorno ho incontrato un ferroviere in pensione che mi ha detto: “Mi guardo intorno e vedo un gran deserto”. Un Beckett di paese mi aveva regalato un endecasillabo.
J.L.Borges in “Elogio dell’ombra” scriveva: “La vecchiaia (è questo il nome che gli altri le danno) / può essere per noi il tempo più felice. / È morto l’animale o quasi è morto. / Restano l’uomo e l’anima”. La vecchiaia dunque viene vista come emergenza dello spirito, come una forza di semplificazione che permette concentrazione su ciò che è essenziale, un rallentare che tende alla quiete, ad un tempo di penombra che diviene progressivamente immagine dell’eternità. Sei d’accordo con questa definizione? Come consideri questo periodo della vita?
Una volta ho visto un ottantenne, in un albergo di Abano, ballare il valzer tutta la sera come un giovanotto. E non solo il valzer, anche il fox-trot e il tango figurato. Era magro, elegante e instancabile. Ma ho avuto il dubbio che fosse pagato dall’albergatore per far ballare i suoi ospiti della terza età. Quel suo volteggiare aveva qualcosa di grottesco e osceno: la marionetta stava recitando la parte del giovane. Oggi siamo inondati dalla retorica sulla terza età: in realtà il vecchio è invisibile e inutile agli occhi della società. Mentre nell’antichità era un venerabile saggio, oggi l’anziano, come i preferisce chiamarlo, èignorato perché è fuori dal circuito economico.
Le due posizioni estreme sulla vecchiaia (o vecchiezza, per chi vuole usare un termine senza rughe) sono quelle di Cicerone e di Jean Améry: da una parte l’ autunno della vita ricco di frutti, attività spirituali e esercizio delle virtù, dall’altra la vecchiaia come annientamento. Da una parte il cliché della serena vecchiaia, dall’altra la rassegnazione alla morte che si avvicina. Ma tra l’immagine dell’ottantenne che balla il valzer e quella di Jean Améry che si suicida, sceglierei una terza via, suggerita nella domanda: la vecchiaia come tempo della penombra. E accoglierei il suggerimento di Solone: invecchiare imparando qualcosa di nuovo ogni giorno. Invecchiare cercando di dare qualcosa agli altri. Invecchiare non rinunciando al conforto dell’immaginazione e della creatività. Come dice Claudio Magris: “La vecchiaia è identica alla scrittura: è un testo, scritto dalla vita sul corpo dell’uomo, ma alterabile e manipolabile dalla sua fantasia”.
La sottile vena umoristica che caratterizza la narrazione ha come finalità prioritaria quella di colorire il racconto o quella di farci sorridere e riflettere?
Quella sottile vena (il vecchio che fa scorta di formaggio, la cameriera che non beve il vino dei “teroni”…) viene dall’osservazione realistica del comportamento umano: sono dettagli che svelano la nostra meschinità d’animo. Dunque è un umorismo sui generis, un po’ amaro. Ciò fa parte della mia poetica del chiaroscuro. La realtà è un intreccio di luce e d’ombra; e l’ombra tende a prevalere. Il mio vecchio è ripiegato in modo patologico sulla sua avidità, la mia cameriera parla con disinvoltura degli impiccati e quando tocca l’argomento “teroni” non si rende conto di essere razzista: è la nuova indifferenza. Ma io, come scrittore, mi guardo bene dal fare la morale. Punto sulla sobrietà.
Sullo sfondo della narrazione appare la campagna veneta, devastata dai capannoni, cimiteri di macchine, centri commerciali, emblema di una modernità che non ha alcun rispetto per la natura. Cosa si può fare per salvare l’ambiente dal degrado?
La devastazione è generale. La modernità ha cavalcato il capitalismo selvaggio inteso al massimo profitto. Oltre che dallo sfruttamento radicale delle risorse naturali e umane, comune a tutta Europa e forse a tutto il mondo, l’Italia è assillata da un nuovo fascismo strisciante, che aggrava la situazione. Non so che cosa si può fare. In generale, credo che il processo sia irreversibile, se non avviene una rivoluzione. Prima di tutto dentro di noi.
Riesci ancora a conservare un rapporto privilegiato con la natura?
La natura? Per me ha qualcosa di sacro. Ma oggi questo sacro lo possiamo vivere solo negli interstizi. “Nel filo d’erba è racchiusa la grazia” ho scritto in una poesia.
Non è solo l’ambiente fisico ad essere minacciato. Anche l’ambiente sociale appare inquinato dalla demagogia, dalle menzogne, dal razzismo, dal chiuso provincialismo dell’ideologia leghista. Credi che la letteratura debba assumersi anche un impegno civile e politico e che esista dunque una responsabilità dello scrittore?
Lo scrittore non è un moralista, ma ha una responsabilità morale; se scrive bene, avrà un influsso benefico sul lettore: l’estetica è imparentata con l’etica. Lo scrittore non è un politico, ma ha una responsabilità civile. Se sta con i più deboli, la sua pagina contribuisce ad affinare la sensibilità sociale del lettore. Lo scrittore non cambia la società, ma può cambiare il modo di guardarla.
Hai cominciato a scrivere e scrivi ancora oggi perché….
Ho cominciato a scrivere perché mi mancava qualcosa. Perché mi sentivo un po’inadeguato alla vita pratica. L’adolescenza è un’età in cui si crea un vuoto in noi: la realtà quotidiana non ci basta più a riempire la vita. Abbiamo bisogno di sognare, di diventare un’altra persona, di riempire quel vuoto con l’immaginazione. Allora ci rifugiamo in solaio a leggere una poesia di Pavese, da soli. Io ho cominciato così. Poi ho continuato a leggere e, in più, a tentare di riempire quel vuoto con parole mie. E continuo anche oggi. Il materiale è dato dal troppo pieno che la vita, nostra e degli altri, porta con sé e che va a rotoli per sempre, se non è salvato dalla parola letteraria. Io scrivo per tenere in esercizio la mia umanità. Scrivo per tentare, inutilmente, di sconfiggere la morte.
Nel racconto sono presenti diversi termini ed espressioni dialettali: qual è il tuo rapporto con il dialetto?
Quando cominciai a mettermi alla prova con la prosa narrativa, i modelli, per la letteratura italiana, erano Pavese, Fenoglio, Pasolini, Mastronardi, tutti scrittori che avevano a che fare con il dialetto. I neoavanguardisti non mi convincevano, facevano letteratura da laboratorio. Io preferivo il reale, alla provetta. Nel 1984, quando finalmente pubblicai il primo libro di racconti, i protagonisti erano sigaraie, operai, uomini del popolo. Quindi feci uso del dialetto, ma in modo moderato, attenuato, in certi giri di frase e in certi termini. Non mi piace lo sfoggio folcloristico del vernacolo. Per me il dialetto è la voce degli affetti, una voce che viene da lontano, e deve entrare in circolo nella lingua come una linfa vitalizzatrice, solo quando i personaggi lo esigono.
L’intervista è inserita come foglio sciolto a corredo del testo nell’edizione d’artista “Le Vecie”, con litografia di Mario Mondo, stampata ne 2009 in novanta esemplari, più cinque prove d’artista per la collana “Le vie dei Canti”delle edizioni Lithos, Como.